Puro e impuro

Puro e impuro

10 Febbraio 2024 0 di Makovec

Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45

In un passaggio del suo libro Il puro e l’impuro, Vladimir Jankélévitch sottolinea come la metafisica della purezza abbia a che vedere con una perdita, un luogo che si è perso o abbandonato. La purezza dell’origine è una purezza che non abbiamo e che solo i morti possiedono. Infatti, l’espressione “Sono puro”, nell’Antico Egitto era attribuita ai morti che si presentavano nell’aldilà. Ma per noi che siamo su questa terra, per noi che siamo dentro una logica sociale e quotidiana, non esiste una netta separazione fra puro e impuro. Ci sono state pratiche di purità e di impurità che, già nel Levitico, hanno cercato di arginare l’impuro, di metterlo da parte, di scartarlo per salvare la società stessa. Si tratta di meccanismi atavici che ancora ci portiamo dietro e che riproduciamo ancora oggi in termini di emarginazione e di solitudine. Ma la differenza cristiana, il portato e l’essere di Gesù è proprio nella non esclusione ma nella compassione per gli scartati, per coloro che vengono allontanati dalla società, in nome di una dicotomia fra puro e impuro. Fino ad oggi è ancora presente nella nostra società una riorganizzazione spaziale e amministrativa fatta di separazione fra puro e impuro, fra chi è da una parte e chi dall’altra. Dicotomia che organizza ed esclude, che mette da parte e preserva l’ordine, che garantisce la sovranità di un potere e riduce gli spazi della politica intesa come partecipazione diretta alla qualità dello spazio. Puro e impuro sono un modo per dividere la società, per gestirla e controllarla creando cattiveria, devianza, esclusione e solitudine. Il lebbroso è il segno di questa impurità che non è solo individuale ma sociale e che la società cerca continuamente di eliminare per preservarsi in uno stato di purità, di ordine e di normalità. Se, dunque, la divisione fra puro e impuro mette dei paletti a chi ha diritto di esistere e chi non ha diritto, fra l’essere sociale e l’essere costretto alla solitudine, nel Vangelo ci ritroviamo dinanzi ad un Gesù che ha compassione del lebbroso, che lo tocca e lo purifica. Un allargamento dell’essere, un allargamento dello spazio dell’essere in cui Gesù solidarizza con il lebbroso, diventando anche lui un uomo che vive fuori dalla città, ai margini, uno scarto. La stessa vita di Gesù è una vita di scarto e fra gli scarti di questo mondo, dalla grotta di Betlemme fino alla croce di Gerusalemme. È una vita che non solidarizza con il peccato o con l’impurità, ma che va alla ricerca del peccatore, dell’impuro, del lebbroso, cercando sempre più di allargare quell’amore trinitario che è la pienezza dell’essere. In altri termini, quella compassione di Gesù è un gesto che allarga l’orizzonte, che ci mette dinanzi a Dio è trasforma la nostra preghiera in invocazione: Se vuoi, puoi purificarmi! E se le parole diventano preghiera, quella lebbra diviene simbolo di una angoscia, di un male, di una impurità, di un peccato che ci portiamo dentro e che confessiamo dinanzi a Dio. Dove la confessione non è uno strumento di controllo e di potere di una casta sulle persone, ma un atto di libertà e di liberazione, di una nostalgia della purezza e dell’affermazione della nostra impurità, elementi che vanno sempre e comunque insieme. Ed anche Paolo aveva compreso, pian piano, che tutta la nostra vita è fatta di purità e impurità e che non esistono persone pure e persone impure, ma che esse convivono dentro di noi. E fra impurità e purità l’orizzonte che si allarga è quello in cui entra e facciamo entrare la gloria di Dio. Fare tutto per la gloria di Dio, vivere tutto avendo come orizzonte la gloria di Dio, dove la gloria allarga l’essere, dona a tutti noi, frammisti di purità e impurità, quella possibilità di imitare Cristo, di avere compassione gli uni degli altri, di liberarci a vicenda, di innescare delle dinamiche politiche di liberazione integrale, di comprender e riconoscere che la lebbra dell’altro è una lebbra che Gesù ha guarito dentro di me e che l’unico sforzo degno del nostro essere umani è quello di sforzarci di piacere a tutti in tutto, senza cercare l’interesse solo di una parte ma di molti, perché tutti insieme, camminando insieme, possiamo giungere alla salvezza.