Obbedienza e obiezione

Obbedienza e obiezione

3 Maggio 2025 0 di Makovec

At 5,27b-32.40b-41; Sal 129; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19

Nel 1965, don Lorenzo Milani riceve un comunicato stampa dai cappellani militari toscani che descrivevano l’obiezione di coscienza un atto di viltà. Leggendo il giornale con i ragazzi e ragazze della Scuola di Barbiana, scrivono insieme una lettera ai Cappellani militari dal titolo L’obbedienza non è più una virtù. Occorre fare una puntualizzazione sul titolo in quanto l’obbedienza non è mai stata una virtù, né cardinale né teologale. In questa lettera passa in rassegna tutte le volte in cui l’obbedienza cieca e l’obiezione di coscienza si sono incontrate nel corso del Novecento, fino a dimostrare come molto spesso è stata l’obiezione di coscienza a salvare le persone e i civili nelle guerre, a servire per davvero la Patria, piuttosto che l’obbedienza cieca a degli ordini impartiti. Sono stati i momenti in cui i militari stesso hanno obiettato dinanzi all’ordine di sparare su un villaggio inerme, su dei civili, di sganciare bombe su intere città o utilizzare armi batteriologiche che hanno servito al meglio la Patria lì dove l’obbedienza cieca ha fatto più danni che altro. E nella nostra epoca, nei nostri giorni di rapidità e velocità nel prendere scelte e decisioni, in cui tutti siamo sotto pressione, ecco che l’obbedienza cieca si rivela essere il miglior olio per far funzionare la macchina delle decisioni e del potere. Obbedire ciecamente per sgravarsi di dosso il peso della propria libertà è il modo migliore per far funzionare la società della velocità, in cui non c’è tempo per riflettere o per scegliere. Invece, don Lorenzo insieme con i ragazzi e ragazze di Barbiana hanno scelto la strada dell’obiezione come risposta all’obbedienza cieca ma, ancora di più come forma di una obbedienza ben più ampia. È quella strada che ha aperto all’obiezione di coscienza, per cui ancora oggi molti ragazzi e ragazze, invece di intraprendere una carriera militare, ritengono che servire la Patria passi attraverso l’assistenza agli anziani, il sostegno allo studio per bambini in difficoltà, l’insegnamento dell’italiano per gli stranieri, nel ridare dignità alla vita sofferente. Così, mentre oggi la retorica militare si fa sempre più forte, retorica di obbedienza cieca alle gerarchie di qualsiasi rango, ecco che già Pietro ci viene incontro con una affermazione strana: Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Lì dove noi vorremmo una obbedienza cieca, ecco che Pietro, dinanzi al sinedrio, dinanzi al potere e alla massima autorità di Gerusalemme, afferma che bisogna obbedire a Dio e non gli esseri umani, ovvero bisogna obbedire alla propria coscienza, per rimanere davvero liberi, per essere in quella libertà che Cristo stesso ci ha rivelato. Infatti, la frase di Pietro non è uno slogan ma è un racconto che attraversa la passione, morte e resurrezione di Cristo, un racconto che fa della resurrezione la rivelazione più ampia del suo essere libero. Quella libertà che diviene obbedienza anche fino alla morte, anche dinanzi alle prove, anche dinanzi alle tribolazioni che ci vengono incontro, così come è la libertà di Cristo sulla croce, così come è la libertà degli apostoli dinanzi alla punizione che viene loro inferta. Se i farisei li rimettono in libertà a condizione di non parlare più di Cristo, ecco che loro se ne vanno lieti per aver obbedito a quella libertà che non viene data dai farisei, una libertà condizionata, ma viene dal Cristo stesso e che non può essere strappata via da nessun potere. Una libertà che ci umanizza, una libertà che scende nelle viscere più profonde del nostro intimo e che non è un semplice far quel che si vuole. La libertà di coscienza di cui parla Pietro è quella libertà di cui lui h fatto esperienza sulle sponde del Lago di Tiberiade, quando Gesù li ha domandato: mi ami tu? Mi vuoi bene? Quella libertà che lo ha fatto sentire completamente nudo dinanzi alla Parola di Dio, dinanzi a quello sguardo che non lo condannava per il triplice rinnegamento, ma anzi lo liberava dal senso di colpa del suo stesso fallimento. Aveva fallito rinnegato il Cristo, aveva fallito nella pesca, fino forse a pensare che tutta la sua vita fosse un continuo fallimento e che nulla sarebbe più cambiato. Invece, la libertà di Cristo lo viene a ripescare lì, in quell’abisso di fallimento fino a fargli vivere l’esperienza dell’abbondanza, l’esperienza di una gioia piena, di una sequela che ricomincia. Quella libertà iena che si rivela, a livello liturgico, nell’Apocalisse, in questo orientarsi verso il Signore, una libertà cosmica che attraversa la storia, che supera qualsiasi regime di oppressione e di punizione, una libertà interiore che è orientamento della vita a Cristo, una libertà che sa obiettare servendo gli altri, rimboccandosi le maniche e manifestando un modo d’essere, un modo di vivere e di vedere il mondo completamente differente dalla cieca obbedienza e dalla violenza che ne scaturisce. Una libertà comunitaria nell’orientamento all’Agnello immolato, fonte di ogni liberazione.