Lo spazio sacro: l’essere è nulla

Lo spazio sacro: l’essere è nulla

3 Luglio 2022 1 di Makovec

Nei mesi scorsi mi è capitato spesso, per i più disparati motivi, di tornare a riflettere sulla dimensione del sacro. In modo particolare, è tornato spesso l’interrogativo sul ruolo e sulla vocazione del sacro all’interno delle città. Se il sacro ha ancora senso, se è solo un retaggio del passato, se è semplicemente una costruzione storica o un dispositivo di potere. E di qui sono nate varie riflessioni su cosa farne del sacro, sul come affrontare i processi di secolarizzazione, se ci sia bisogno di eliminare definitivamente, con una sorta di campagna sociale la questione del sacro o, semplicemente, ridurlo ad un pezzo da museo, ad un retaggio culturale e sociale delle nostre civiltà, ma che non ha più nulla da offrire alla moderna, ipermoderna e surmoderna civiltà contemporanea, globalizzata o, per meglio dire, occidentalizzata. Credo, in prima istanza, che bisogna porre delle differenze fra ciò che è sacro, ciò che è cultuale, ciò che è religioso e ciò che è rituale. Come una sorta di stratificazione, nelle nostre città, ci ritroviamo ad affrontare e a vivere esperienze rituali che variano nelle forme, nelle composizioni, nei contesti storici e sociali. Tuttavia, il rito non è identificabile con il sacro, ma il rito è una espressione storica della relazione sociale e collettiva degli esseri umani con il sacro. E questo ci sembra evidente nei legami che una città ha con le proprie tradizioni e i propri riti. I riti, poi, non sono neanche specificatamente legati ad un senso religioso identico per ciascuno. Le ritualità collettive, infatti, non è detto che siano sempre religiose e non è detto neanche che le ritualità religiose siano sempre delle manifestazioni di fede. Il senso religioso, infatti, dipende dal credere di ciascuno, credere che permette di partecipare in un determinato modo e con determinate posture ai riti religiosi. Ora, il senso religioso di ogni persona, poi, sia che sia ricevuto dall’educazione famigliare sia che nasca da esperienze personali, non è possibile identificarlo con la sfera del culto. Seguendo le intuizioni di Pavel Florenskij, potremmo dire che il culto ha a che fare non solo con l’esperienza di fede, non solo con il proprio cammino religioso, ma con la cultura. Dove cultura sta ad indicare il come viviamo il nostro tempo e la nostra epoca in relazione al culto del sacro. Al di là di un sistema religioso, dunque, c’è una relazione che è, al tempo stesso, personale e collettiva con il sacro che si manifesta nella dialettica fra culto e cultura. Ogni relazione con il sacro (culto) genera cultura, intesa come pratiche, pensieri, attività, operazioni, quotidianità che viviamo con gli altri, nella costruzione della città. Allora, che cosa è il sacro in una città? Se guardiamo a tutte le espressioni cultuali e culturali, nelle differenti epoche storiche, che si sono relazionate al sacro, potremmo dire che esso è uno spazio all’interno della città. Il sacro è uno spazio urbano in cui è contenuto il nulla, la cui esistenza stessa è nulla. Lo spazio sacro è lo spazio dell’essere nulla, in cui non c’è solo un vuoto urbano, ma un rimando ad una dimensione altra, ad una relazione con la divinità. Lo spazio sacro è quello spazio che, nell’essere, è il nulla. Un nulla che non permette all’essere di implodere su se stesso nell’accrescimento continuo, nella saturazione e nella pienezza. Allora, in quanto spazio del nulla, il sacro è lo spazio della pluralità, lo spazio che diviene luogo di culto e che genera cultura come continua e costante interpretazione del vivere nella contemporaneità, in comune. Ecco, allora, a come può esprimersi il sacro all’interno delle città: non sotto forma di riti, non solo come percezione religiosa individuale, ma come nulla che apre ad una polisemia di linguaggi culturali che rimandano ad una relazione cultuale con il divino. Un luogo sacro in cui poter decomprimere l’essere e l’esistenza, per lasciar posto all’inedito.