Città panico

Città panico

12 Maggio 2020 0 di Makovec

Il contrario della città non è l’asocialità. Molto spesso pensiamo che la città sia il luogo della socialità, dove tutti gli uomini e le donne possono vivere il loro essere politici, per dirla con Aristotele. In realtà, la città non è solo il luogo della socialità ma anche dell’antisocialità. Emarginata, rinchiusa, controllata, messa a tacere sempre e comunque riservata a determinate zone: dal manicomio alla propria stanza di casa. L’asocialità è parte integrante della città, così come la socialità. È il gioco della luce e dell’ombra che ricorda alla città e ai propri cittadini di essere vivi e concreti. Ma, allora, qual è il contrario della città? Cosa ne minaccia continuamente la disgregazione e cosa la espone al rischio di crollo? Secondo Marzio Favero per Urbanistica informazioni e Paul Virilio nel suo libro Città Panico, ciò che davvero espone la città al rischio del misconoscimento è il panico. La parola stessa deriva dal dio greco Pan divinità che abitava sicuramente fuori la città, nelle zone selvatiche e che iniziava a pratiche differenti da quelle della città. Era un dio rispettato e, allo stesso tempo, attraente proprio per questo suo essere non rispettoso delle regole quotidiane e della stessa logica. Per questo da Pan deriva panico che non è equiparabile alla paura ma alla vera e propria perdita di senso, di fine, di comunità. Il panico è la disgregazione della comunità, la spaccatura della coesione urbana che porta a commettere ciò che, solitamente, non si commetterebbe mai. Ma il panico è anche la situazione stessa della città che ci deriva dalle immagini sempre più frequenti delle zone di guerre, delle città ridotte a macerie, del fuoco che piove dall’alto, della punizione per qualcosa che non si è commesso. La città panico è la città presa d’assedio, che vede il distruggersi dei palazzi, delle abitazioni, delle strade, del quotidiano. Il panico, dunque, è la dimensione dell’antipolis, di ciò che non può essere ritenuto propriamente politico inteso come vita nella città. Per questo motivo, quando in una città si semina il panico la prima fenomenologia è quella della distruzione, del disordine, del caos. Ma se approfondiamo ancora di più questo binomio ci viene da chiederci quanto le città oggi non siano esse stesse innestatrici di panico, ovvero di tutto ciò che città non è. Quando la cattiva gestione, la corruzione amministrativa, il mal governo, bloccano la forma della città, ecco che la città stessa spinge la gente all’anonimato, al non riconoscimento in un politica sempre più combattuta all’interno dei palazzi e non nelle agorà. E in questa politica, ciò che è antipolitico emerge con più tenacia, il panico serpeggia silenzioso e si manifesta in alcuni atti, in gesti sporadici o di massa, per riagganciare la città stessa alla sua missione politica. Perché solo una gestione comune e condivisa della città spinge il panico lì, nella sua zona selvatica, dove non è città.