Monachesimo e placemaking

Monachesimo e placemaking

12 Ottobre 2025 1 di Makovec

. Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente assistiamo ad un’epoca di estrema crisi sociale e politica, senza più un riferimento preciso, senza più valori condivisi, senza confini e senza alleati. In questo scenario desertico e desolato, fatto di violenza e di brutalità, di incroci di culture differenti, ecco che chi ha portato avanti e ricostruito la civiltà sono stati i monasteri. Durante tutto il Medioevo ed oltre, per quasi 1800 anni fino ad oggi, i monasteri sono stati i luoghi che hanno custodito e ricostruito la civiltà, le relazioni, le città. Ricorda Elena Granata che i monaci sono stati placemakers, costruttori di luoghi.

L’opera di cura del territorio, di gestione dei boschi, di produzione agricola fu resa possibile dall’avvento del monachesimo, che, prima ancora delle strade e delle relazioni commerciali, costruì una “rete di interconnettività” (così chiamata efficacemente da Mortimer) fra cristiani, fatta di monaci e monasteri collegati capillarmente con il mondo secolare dei parroci e dei funzionari di corte dei vescovi-conti, in territori molto distanti tra loro. Il processo di trasformazione di territori e paesaggi avvenne per mano dei monaci: camaldolesi e benedettini furono tra i primi a recuperare spazi del bosco e a riadattarli all’agricoltura, furono per definizione disboscatori, dissodatori, bonificatori e costruttori. Oggi potremmo dire che furono placemaker, inventori di luoghi che non esistevano prima, sintesi di economie e di architetture, di paesaggi e di comunità.[1]

E la realtà monastica come spiritualità capace di costruire luoghi è ciò che ci riporta alla spiritualità come promozione della dignità umana, sottolineando un ritorno alla Regola. Ricorda Luigino Bruni che il monachesimo ha contribuito anche allo sviluppo economico delle civiltà non in quanto impresa sociale o inquanto seguaci di qualche figura carismatica ma come discepoli di una Regola di vita da imparare nella pratica, nel lavoro quotidiano.

È la Regola la vera leader del monastero. Ciascuno nel cenobio segue la regola, compreso l’abate, che è modello di altri in quanto fedelissimo alla stessa regola di tutti. L’abate, diversamente dal fondatore di comunità, è dunque un seguace (follower), non un leader. La longevità, la resilienza e la sostenibilità dei monasteri sta proprio nella spersonalizzazione della leadership, come la fragilità e la breve durata delle comunità (e imprese) carismatiche stanno nella personalizzazione del fondatore, che spesso diventa l’ipostasi del carisma della comunità. L’immagine del carisma del monastero non è l’abate, neanche san Benedetto o san Basilio, ma la regola. Tanto che molti monasteri sono nati e nascono attorno alla sola regola, senza nessuna personalità carismatica. La leadership della regola è quanto di più distante si possa immaginare dalla governance delle grandi imprese di oggi, anche di quelle che dicono di ispirarsi alla regola di san Benedetto.[2]

Seguire la Regola più che i singoli carismi o le singole persone è ciò che, mutatis mutandis, può servire anche alla Congregazione, per ritrovare e radicare la propria spiritualità tendendo alla promozione della dignità umana nelle città in cui si trova ad operare, a gratis, fra grazia e gratitudine.


[1] E. Granata, Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo, Einaudi, Torino 2021, p. 126-127.

[2] L. Bruni, L’arte della gratuità. Come il capitalismo è nato dal cristianesimo e come lo ha tradito, Vita e Pensiero, Milano 2021, p. 126.