Una strada per un’altra
Ab 1,2-3;2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
Nella Cappella Chigi, nella Basilica di Santa Maria del Popolo a Roma, c’è una statua del Bernini raffigurante Abacuc, il profeta di cui abbiamo ascoltato la testimonianza, con un angelo. L’opera di Bernini, voluta da Fabio Chigi, futuro Alessandro VII, gioca nello spazio angusto della cappella insieme a quella di Daniele nella fossa dei leoni. Si tratta di un altro brano biblico che racconta di Abacuc che vorrebbe andare da un’altra parte mentre Dio manda un suo angelo, che lo prende per i capelli e gli indica un’altra direzione. Quell’angelo afferra per i capelli il profeta e gli chiede di andare verso Daniele nella fossa dei leoni, come è raccontato nel libro di Daniele. È una scultura interessante anche perché Abacuc vorrebbe andare in una direzione, mentre l’angelo gli indica di andare da tutt’altra parte, soprattutto a salvare un uomo, un profeta, un giovane Daniele, dalla fossa dei leoni, portandoli da mangiare. Solitamente ritroviamo i profeti anche in questo atteggiamento di difficile comprensione della volontà di Dio, di difficile comprensione di quello che sta avvenendo nella loro vita e perché Dio chieda loro di attraversare delle vie molto più difficili e molto più impervie rispetto a quelle che avrebbero potuto affrontare. L’atteggiamento di Abacuc lo ritroviamo anche nella prima lettura di oggi, dove il profeta chiede vendetta e Dio parla di scrivere una visione. Dinanzi al povero, dinanzi all’oppresso, dinanzi alla violenza che dilaga ieri come oggi, anche in forme di genocidio, Abacuc grida violenza al Signore, vorrebbe che il Signore agisse con violenza. In un mondo che sembra conoscere solo un linguaggio violento, anche Abacuc vorrebbe che Dio parlasse questo linguaggio, vorrebbe che Dio punisse quelle persone, utilizzando la sua definitiva violenza. Invece, la risposta di Dio è: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede». Dinanzi alla violenza che dilaga, Dio parla un altro linguaggio, scrive una visione e continua ad incidere una visione nella vita di Abacuc. In altre parole, gli chiede di andare per un’altra strada, una strada difficile, una strada che sembra non avere nessun senso proprio in quel momento difficile, una strada che dice un modo altro di vivere e una vita altra, ben oltre la guerra e la paura, la violenza e l’oppressione. In questo consiste la fede, quella fede di cui ci racconta Paolo, per cui non abbiamo uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. La fede non è chiusura, non è indifferenza, non è neanche pensare di rispettare qualche precetto per andare bene, ma è forza, carità e prudenza nell’annunciare un mondo altro, anche pagando di persona, come Paolo che rimane in catene. Il problema è non vergognarsi di avere fede, riconoscere che avere fede, alle volte, significa anche prendere le decisioni meno facili e le strade più scoscese. Ma, soprattutto, avere fede significa ricordarsi della cosa più difficile di tutte: che siamo servi inutili. Quando i discepoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede, egli risponde che con la fede potrebbero immaginare di tutto, immaginare anche l’impossibile, come sradicare un gelso e trapiantarlo in mare. Chi si accontenta della realtà che c’è fa professione di ateismo, perché aver fede significa sperare nell’impossibile, persino che un Dio possa morire per noi. E l’essere servi inutili è ciò che maggiormente facciamo fatica ad accettare e che non potremmo accettare se non in una dimensione di fede, se non dentro la possibilità di una fede altra. Perché significa credere che quel Dio che ha rivoluzionato il mondo possa ancora convertire noi, possa ancora trasformare la realtà, possa ancora andare e agire dopo che noi saremo passati. Essere servi inutili diventa liberante solo nella fede, mentre senza fede è solo una ulteriore frustrazione. Perché nella fede ci accorgiamo che il mondo non finisce con noi, che il mondo eccede anche la nostra presenza, che il mondo può fare a meno di noi. Il che ci spinge a concentrarci e a ricercare l’essenziale, quell’essenziale che va ben oltre ogni immaginazione, anche ben oltre le nostre immaginazioni. E continuare a camminare, nella libertà, anche per altre strade, anche per vie che non volevamo percorrere, anche per strade più difficili e impensabili, senza indurire il cuore.
L’interpretazione artistica: “L’opera di Bernini nella Cappella Chigi non è semplicemente una scultura: è un racconto tridimensionale di una fede in tensione, un momento congelato in cui il conflitto tra la volontà umana e la chiamata divina prende forma fisica. Il gesto dell’angelo che afferra Abacuc per i capelli è volutamente teatrale, ma non è solo barocco nel senso estetico: è una metafora plastica della forza con cui Dio ci strappa dalle nostre sicurezze per inviarci verso ciò che ancora non comprendiamo. Bernini non rappresenta un Abacuc sereno, ma un uomo in movimento, sorpreso, quasi riluttante. Lo spazio stesso della cappella diventa parte del racconto: il suo sguardo, che non guarda l’angelo, è orientato verso l’altrove, verso il Daniele che attende. Lo spettatore è obbligato a muoversi nella cappella per cogliere il dialogo a distanza tra le statue: è un invito a non restare fermi, a camminare nella fede. Il linguaggio barocco, spesso frainteso come eccessivo, è in realtà profondamente teologico: in questa scena non c’è immobilità, non c’è la “santità muta” del Medioevo, ma un corpo vivo, pieno di dubbi, di emozioni e di resistenza. Ecco la fede come ce la racconta anche il testo: non come quiete, ma come lotta interiore, come gesto che ci trascina, persino contro la nostra volontà, verso una chiamata più alta. Bernini, da artista profondamente credente e geniale interprete dello spazio sacro, ci ricorda che l’incontro con Dio è sempre incarnato, sempre mediato dalla carne, dallo sguardo, dal gesto. Non si tratta solo di raffigurare, ma di rivelare qualcosa dell’invisibile. L’arte diventa così non spiegazione, ma provocazione: ci domanda se anche noi siamo disposti a lasciarci prendere per i capelli e condurre altrove. Anche noi, come Abacuc, restiamo sospesi tra ciò che vorremmo e ciò che Dio ci mostra. E l’arte, come la fede, non dà risposte semplici, ma apre spazi di libertà e di trasformazione.”