Nella preghiera, giustificati
Sir 35,15b-17.20-22a; Sal 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
Siddhartha di Herman Hesse è uno dei romanzi più famosi del Novecento come anche uno dei maggiori romanzi dell’autore tedesco. La storia di Siddhartha è la storia del giovane conosciuto come Buddha o, meglio, uno dei buddha che la storia ricordi. È la storia di un giovane inquieto, cresciuto fra i bramini, fra i sacerdoti del culto indiano, ricco e all’oscuro dei mali del mondo. Siddhartha non conosce la povertà, tenuto all’oscuro di tutto, tenuto segregato in un palazzo d’oro. Ad un certo punto, si accorge che la maggior parte dei culti a cui partecipa sono sterili e vuoti, privi di senso. Per questo si incammina verso una comunità di asceti, insieme a Govinda, il suo più caro amico. Ma anche qui non riesce a trovare il senso, non riesce a comunicare con il divino, con l’anima del mondo. Si rimette nuovamente in cammino fin quando incontra un maestro spirituale che Govinda sceglie di seguire come discepolo. Siddhartha non soddisfatto si mette nuovamente in ricerca fino a quando giunge alle sponde di un fiume. Qui incontra un vecchio pescatore che gli racconta dell’anima del fiume, dell’ascoltare ciò che il fiume dice. Dopo tante altre vicissitudini, Siddhartha raggiunge quello stadio di illuminazione per cui sarà chiamato buddha, l’illuminato. Ma per giungere a quello stadio di preghiera e meditazione entra in contatto con la povertà. Per pregare c’è bisogno di abbandonare l’intima presunzione di essere giusti che ci porta a disprezzare gli altri. Quell’intima presunzione che Siddhartha viveva mentre era nella casta dei bramini, dei sacerdoti, la casta più alta nella gerarchia induista. Quella stessa casta a cui appartiene il fariseo, nella società ebraica. La casta dei puri, dei perfetti, di quelli che meritano il Regno perché fanno tutti i compiti e rispettano pedantemente le leggi e le norme. Ma la differenza che pone Gesù non è nelle parole della preghiera o, meglio, non è solo nelle parole della preghiera. Si tratta, invece, di andare più in profondità, di scorgere la sorgente della preghiera che è una coscienza ferita. Per Siddhartha di Hesse, la ferita della coscienza è nell’aver conosciuto la povertà, nell’aver riconosciuto la propria povertà oltre quella sociale e politica. L’entrare a contatto con la sofferenza, con il dolore più profondo, è ciò che scuote la coscienza, ciò che fa gridare a Dio come ricorda il Siracide. La preghiera del povero, come la preghiera di colui che accoglie con benevolenza le differenti e disparate forme di povertà, buca le nubi e giunge fino a Dio. La coscienza di un mondo ineguale, delle profonde disparità sociali, delle strutture di peccato come anche dei peccati personali sono ciò che fa nascere la preghiera, che ci fa chiedere aiuto a Dio. la preghiera del pubblicano nel Tempio nasce da una coscienza ferita, da un toccare con mano le povertà più profonde della realtà, come anche della sua stessa esistenza. L’essere peccatore non riguarda le singole azioni ma una condizione di partenza che ci fa tendere a Dio, che ci permette di pregare. Non è una giustificazione della povertà, come non è neanche una giustificazione del peccato ma l’attestazione di una realtà iniqua, ingiusta, imperfetta. Una realtà che non ci vede rassegnati ma lottatori, come Paolo. Anche quando tutti lo abbandonano, anche quando tutti gli fanno del male, anche quando è in catene può affermare di aver combattuto la buona battaglia, di aver terminato la corsa e di aver conservato la fede. La vita spirituale germoglia da una ferita della coscienza dinanzi alle tante ingiustizie e ci spinge a lottare anche contro il nostro produrre ingiustizie, anche contro il nostro essere dalla parte dei ricchi e non dei poveri. Perché Dio è dalla parte dei poveri in quanto hanno subito ingiustizie, ci chiede di metterci dalla loro parte, di essere voce soprattutto di quelle persone che sembrano non avere diritto di parola nelle tavole dei potenti. Perché il Signore è vicino ha chi ha il cuore spezzato, chi grida a lui, chi piange per le ingiustizie del mondo, come ci ricorda il Salmo. È vicino e salva gli spiriti affranti, coloro che sanno di essere peccatori e di lì, nella preghiera, giustificati.