Gaza, ovvero metafisica della città
Durante la mia seduta di laurea magistrale mi è stata posta una domanda interessante. Mi è stato chiesto se ci fosse la possibilità di una applicazione sul campo della metafisica della città, ovvero di una metafisica che si interessi alla città e possa aiutare a pensare le nostre città. L’esempio che, lì per lì, mi è venuto in meno è stato proprio Gaza city. Era il mese di luglio e infuriavano ancora i bombardamenti su Gaza, con migliaia di morti al giorno, senza contare i feriti e le macerie. In quel momento, come ancora oggi che le immagini di Gaza city entrano nelle nostre case o sono presenti nei nostri cellulari, viene da chiedersi: che cosa è una città? Siamo abituati, anche a livello mentale e visivo, ad identificare immediatamente una città con i suoi palazzi, strade, luci, auto, perone per le vie e così via. Ma quando di una città non rimangono altro che macerie, che cosa è una città? Possiamo ancora parlare di città? Dinanzi allo scenario desolante del genocidio palestinese e delle immagini di Gaza con ormai scheletri di palazzi, possiamo ancora parlare di città? La domanda ha degli immediati risvolti politici. Infatti, se continuiamo a parlare di Gaza anche dinanzi a quel cumulo di macerie, stiamo asserendo che quella è ancora una città abitata da persone, che ha subìto una distruzione importante e sistematica. Invece, se pensiamo che Gaza sia solo un cumulo di rovine e che non ha più senso chiamarla “città”, allora stiamo riconoscendo l’impossibilità ad esistere anche per il popolo palestinese e soprattutto per i cittadini di Gaza. Ed è qui che ci viene incontro la metafisica della città o, meglio, l’affermazione che ogni città è metafisica. Gaza, come anche le nostre città, non sono mai state identiche a se stesse, ma si sono evolute nel corso degli anni e dei secoli. La Gaza del periodo latino è stata la prima città in Palestina, ricchissima di risorse e di commerci. La Gaza che abbiamo visto nel 2015 è già estremamente differente rispetto alle macerie lasciate da Israele. Eppure, la sua storia rimane insita nel nome, in un nome che travalica i secoli e che va ben oltre i suoi palazzi, le sue strade, le sue relazioni sociali e politiche. Riconoscere una metafisica alla città di Gaza significa riconoscere che la sua esistenza rimane anche oltre la distruzione e le macerie, che il suo diritto ad esistere come città fatta di cittadini e non come una Disneyland frutto di affari economici, è una questione filosofica, politica e urbana. Pensare di cancellare Gaza radendola al suolo non significa cancellarne la metafisica ma ridurre i suoi abitanti in condizioni subumane che vanno dalla schiavitù alla ghettizzazione nelle tendopoli, fino alla migrazione. Ma anche quando una città viene spopolata, rasa al suolo, cancellata in termini di abitato, permane ancora una sorta di sua metafisica fatta di storia e di narrazioni. E questo se vale ancora per Gaza, oggi, la quale non può essere cancellata solo dalla distruzione di palazzi e di civili innocenti, vale anche per tutte le nostre città che sono, in qualche misura, non concentrati di edificato ma narrazioni metafisiche.
A Varsavia, quando sono stata a studiare in Accademia, una anziana guida, che aveva vissuto la distruzione della città, mi ha raccontato di una vecchia coppia che, dopo i bombardamenti, si stava sistemando fra le macerie. Il vecchio stava liberando uno spazio per loro, quando all’improvviso dice: “Guarda: un bicchiere intatto. Senza un graffio. Incredibile: ora possiamo bere!” “No – interviene sua moglie – mettiamoci dei fiori. Possiamo sempre bere con le mani”.
Le persone sentono il bisogno dei fiori per esprimere un sentimento altrimenti indicibile, nei luoghi dove è accaduto qualcosa di terribile o donandoli a una persona cara. Non sono gli stessi fiori. È il bisogno di un simbolo d’innocenza sopra una ferita o d’amore per una nascita.
Il primo (davvero!): mi hanno riferito che il primo negozio ad aprire tra le rovine di Varsavia, pochi giorni dopo l’occupazione tedesca – appollaiato in cima alle macerie, nella neve! – fu quello di un fioraio.
Ancora prima del tram semidistrutto che ospitò il primo caffè, toccò a quel fioraio. I fiori sono stati davvero la prima cosa di cui hanno avuto bisogno. Prima del pane. E forse ancora prima delle parole.
(Liberamente tratto da da In fuga di Anne Michaels)
Mi viene in mente l’Iliade. Troia distrutta sopravvive per l’eternità nell’epopea. Il suo popolo, i suoi eroi vanno ben oltre la distruzione. Gli abitanti di Gaza sono oltre le macerie della città. A noi il compito di cantare le gesta di sofferenza e miseria che stanno vivendo e aiutarli a riappropriarsi del territorio su cui hanno edificato la loro storia.
Questa riflessione su Gaza mi porta a riflettere sulla realtà di quelle città che all’opposto di Gaza non hanno visto la distruzione materiale ma sono ridotte a macerie nelle relazioni umane conflittuali, nella miseria culturale e spirituale, nella incapacità di dialogare per divenire comunità.