
Domanda e distanza urbana: che tempo fa oggi?
Qualche giorno fa, nell’incertezza del tempo fra sole e pioggia, da casa dove oggi dimoro, ho sentito una donna anziana chiedere alla sua dirimpettaia se avesse piovuto in giornata. Una domanda che mi ha colpito immediatamente non per la banalità del contenuto, ma per la realtà della domanda stessa. È raro, oggi, ascoltare una domanda sul tempo, chiedere se pioverà o meno, chiedere se sarà bel tempo o no, per il semplice fatto che abbiamo tutte le informazioni presenti sul internet, sui siti, sui nostri smartphone. Tutte le informazioni riguardanti il tempo meteorologico, ma anche tutte le informazioni che possiamo e vogliamo ricevere passano attraverso i canali informatici. Con l’intensificarsi dell’informazione, dei cambiamenti in tempo reale, che senso ha ancora porre una domanda sul tempo meteorologico? Ma, se volessimo accentuare la questione: che senso ha più, ormai, porsi delle domande? L’informazione naviga in un flusso di dati da cogliere, da intercettare, da acquisire, forse da interpretare ma mai da interrogare, perché non ne abbiamo più il tempo. Non c’è tempo per porsi domande, non c’è tempo per chiedere, non c’è tempo per incontrare una persona da balcone a balcone e porre una domanda, anche banale, come se fosse prevista pioggia o meno. A questa capacità di interrogare, poi, si aggiunge la realtà urbana dei palazzi, la distanza fra i balconi, la domanda su quale distanza possa favorire una relazione con il vicinato o quale ci faccia evitare tutto ciò. Quale distanza fra i balconi e, quindi, fra i palazzi ci permetta di intrecciare relazioni o quale invece salvaguardi l’illuminazione naturale, la salubrità, i venti fra un palazzo e l’altro. Questioni che non dipendono solo dalle leggi o dai piani urbanistici, ma da una domanda sull’essere umano, da una concezione antropologica di fondo, dalle idee che abbiamo delle persone, del loro incontrarsi, del loro fruire o meno delle tecnologie. Pianificare anche la distanza fra un palazzo e l’altro è una domanda filosofica prima ancora di essere una legge a standard. Anzi, il calibro delle distanze fra un palazzo e l’altro, fra un balcone e l’altro, è una dialettica di relazioni umane e ambientali, di salubrità e salvaguardia, di privato e pubblico. Distanze che, alle volte, vengono anche inficiate (accorciate o allungate) dagli aumenti volumetrici dei piani urbanistici, dal costo del metro cubo edificato, dalla volumetria concessa per ogni metro cubo su metro quadrato. La distanza fra edifici, fra balconi ma, ancora più profondamente, fra persone, è una domanda filosofica che mette in luce le differenti relazioni fra l’abitato e il costruito, fra le relazioni sociali e i piani urbanistici, fra l’informazione che possiamo ricevere in maniera individuale e la comunicazione personale che attraversa anche i tempi del quotidiano. Per cui, anche chiedere se oggi piove o meno, può sviluppare relazioni di vicinato, di prossimità, di umanità.
Leggo sempre con molto piacere le riflessioni domenicali ed oggi mi ha colpito la riflessione sul valore urbano della “distanza” “… Questioni che non dipendono solo dalle leggi o dai piani urbanistici, ma da una domanda sull’essere umano, da una concezione antropologica di fondo, dalle idee che abbiamo delle persone, del loro incontrarsi, del loro fruire o meno delle tecnologie. Pianificare anche la distanza fra un palazzo e l’altro è una domanda filosofica prima ancora di essere una legge a standard. Anzi, il calibro delle distanze fra un palazzo e l’altro, fra un balcone e l’altro, è una dialettica di relazioni umane e ambientali, di salubrità e salvaguardia, di privato e pubblico.”
É sempre più evidente che le nostre città e più in generale i contesti costruiti che abitiamo tra lavoro, residenza e tempo libero (riflesso della pianificazione, dell’urbanistica e soprattutto della politica) debbano riporre al centro il genere umano (le città sono state inventate per noi) inteso come parte imprescindibile dell’ecosistema terra e dei relativi equilibrio e armonia.
In questo scenario noi per primi, gli architetti, in quanto esecutori, alla scala della città, delle visioni e norme che governano il territorio, noi che dovremmo fungere per questo da facilitatori del confronto tra la realtà concreta e la sua programmazione, abbiamo perso il nostro ruolo di anelli, di facilitatori. Ma spesso per non dispiacere gli amici non ci si rende conto di favorire un disvalore per molti. Questo, secondo me, per 2 motivi:
da un lato, noi, come categoria abbiamo perso quello spirito di gruppo, di coesione e collaborazione, dall’altro perché pian piano la politica finisce per fare leva su personalismi, guidata da ansia di visibilità e velocità.